29 giugno 2016

Vera Van

Vera era nata con il luccichio negli occhi.
Occhi vispi, allegri e più di ogni altra cosa curiosi.
Vera la curiosità, la voglia di vivere, ce l’aveva nel sangue.
La prima volta che vide una pozzanghera, e vi posso assicurare che era una pozzanghera enorme per una bambina così piccola, lei ci saltò forte con i piedi dentro e schizzò acqua ovunque.
Non era la classica peste, era tranquilla lei, solo era curiosa di sapere cosa sarebbe successo se lo avesse fatto, e la cosa la divertì un sacco.
Poi un giorno cominciò a parlare, ed il mondo si colorò di un nuovo suono.
Avete presente quando avete finito di pranzare e sentite in fondo alla bocca quel bisogno di qualcosa di dolce?
“Beh, ora il dolce ci starebbe proprio bene”
Ecco, quella sensazione lì, quel formicolio delle papille gustative.
Era così che il mondo aspettava le prime parole di Vera, e queste arrivarono.
Certo non è che fossero proprio delle parole sensate, avevano sicuramente a che fare con la pappa o qualcosa del genere, ma quel giorno scattò qualcosa.
Vera scoprì che adorava parlare, cominciò a parlare continuamente e di tutto, sempre e comunque.
Forse più che la quantità delle parole, la cosa importante era la qualità di queste.
Parole così dolci che avrebbero potuto calmare un orso infuriato, ti metteva la pace dentro quella donna, ti parlava in un modo che nessuno sapeva fare. Non è che ti dicesse qualcosa di diverso da quello che potevano dire gli altri, ma come lo faceva lei…
Beh…
Avreste dovuto sentirla parlare, ecco.

Purtroppo però la vita è dura con tutti, anche un po’ ingiusta, ed una brutta febbre le tolse la parola.
Si, il mondo all’improvviso divenne silenzioso, nessuno più poté ascoltare la voce di Vera.
Lei faceva la maestra alle elementari, tutti in paese le volevano bene, ma i suoi bambini semplicemente la adoravano.
E cominciò per caso quella faccenda lì, fu un gesto disinteressato di uno dei suoi bambini, un piccolo gesto.
Lui andò a trovare la sua maestra.
Certo, lei non poteva più parlare, così lo cominciò a fare lui per entrambi.
Riempì il silenzio che era sceso in quella casa, ed improvvisamente tutto si sbloccò; come se l’aria diventasse di nuovo respirabile, e sul volto di Vera nacque di nuovo un piccolo e dolce sorriso.
Così tutti i suoi alunni cominciarono ad andare a trovarla, per riempire insieme il vuoto, per sconfiggere il silenzio, per far sorridere la donna più dolce del mondo.
E si sa, non si può sempre avere qualcosa di buono da dire, e spesso i bambini parlavano perché dovevano parlare, lo facevano senza sosta e fin quasi a stramazzare a terra senza fiato.
E c’era da morir dal ridere ad ascoltare quei discorsi, i bambini si divertivano come matti e Vera ascoltava ancora più divertita di loro, curiosa com’era con la gioia dipinta in volto ed il cuore pieno di storie incredibili.


Il resto, come si suol dire, è storia: nacque nel paese di Vera Van il modo di dire, quando qualcuno parla a casaccio gli si dirà sempre “Stai parlando a VanVera!”


22 giugno 2016

Un Gran Finale

Mi sveglio scuotendo la testa, sono seduto, sono nella sala di un cinema.

Le sedie sono di velluto rosso e tutte numerate, ho un sacchetto di pop-corn in grembo e sento il sapore del burro in bocca, lo schermo è bianco, lo spettacolo non è ancora iniziato e le luci sono accese.
La sala è completamente vuota, sono da solo.

Sono seduto mentre mastico pop-corn e mi guardo in giro chiedendomi come diavolo sia finito lì, ero convinto di essere andato a letto, ed in effetti quello che ho addosso è il mio pigiama, cosa diavolo sta succedendo?
“E’ una gran noia di film, ma non mi stanco mai di vederlo” esclama una voce alla mia destra.
Mi giro e noto un tipo disteso su una poltrona 7 o 8 posti più in là: sulla trentina, capelli rasati, occhiali da sole, stivali, cappotto e pantaloni in pelle, maglia nera con la scritta "Heden".
Ha le gambe distese in avanti con gli stivali poggiati sul sedile di fronte a se.
Abbassa gli occhiali sul naso, si gira a guardarmi e sorride mostrando i denti bianchissimi “Ti piacerà”.

Si spengono le luci e sullo schermo appaiono delle immagini.
E’ la casa dei miei genitori, sembra nuova di zecca, la finestra è aperta e da dentro si vede una culla.
“Marie, è bellissimo” esclama mio padre mentre abbraccia da dietro la schiena mia madre, entrambi fissano con dolcezza la culla.
“Voglio chiamarlo Richard, è un nome che mi è sempre piaciuto”

Quando mi rendo conto di quello che sto guardando per poco non mi strozzo col pop-corn.
“Ecco, io invece Richard proprio non lo sopporto, non capisco con che coraggio tua madre ti abbia fatto questo torto” stavolta però la voce veniva da dietro di me, mi giro ed il tizio è seduto qualche fila più indietro, non c’è più nessuno sulla destra.
“Si può sapere chi sei e cosa ci facciamo qui?” gli urlo contro.
Si mette un dito davanti alla labbra socchiuse ed indica davanti a lui.

Le immagini proiettate sullo schermo erano cambiate: io e mia madre eravamo al parco, avrò avuto al massimo 5 anni, stavamo mangiando un cono.
Mi vedo bambino mentre spingo con la lingua la mia pallina di gelato troppo forte e questa che esce fuori dal cono cadendo a terra.
Mia madre mi guarda, ma prima che possa cominciare a piangere mi dà una delle sue palline di gelato, la guardo con gli occhi un po’ umidi ma sorrido contento.

Immediatamente la scena sbiadisce, si vede la palestra della mia scuola elementare, ci sono io e Tim, ce le stiamo dando di santa ragione “Ridammi il mio giubbino!” gli urlo mentre ci teniamo per i capelli.
“Non hai mai saputo incassare” dice ridendo il tipo che ora mi siede di fianco, non capisco come possa spostarsi così velocemente senza che io me ne accorga.
Le immagini sullo schermo cominciano ad accelerare e a susseguirsi sempre più velocemente: il primo bacio con Denise, il diploma, la volta che ho dato un pugno a mio padre, il mio primo licenziamento, l’esame per entrare in polizia, la prima volta che ho ucciso un uomo, la nascita di mia figlia, la volta che ho rubato quei soldi della refurtiva, la firma del divorzio dall'avvocato, la volta che lancio il televisore fuori dalla finestra, l’incidente in moto, una delle notti di sesso con Jenny, io che spengo una sigaretta a terra, migliaia di fotogrammi che si susseguono velocissimi, io li vedo e li ricordo tutti.
Poi tutto si blocca.

Viene inquadrato il parabrezza della mia auto, sono seduto al volante, sto fissando la strada davanti a me, sono annoiato.
Il Richard dello schermo guarda di fronte a se, mi guarda, ed io guardo lui.

“L’avrai riconosciuta Rick, quella era la tua vita”
Mi si attorcigliano le budella.
“Si, lo so, ma noi lassù pensiamo che tu sia un uomo buono e che meriti quantomeno la possibilità di riflettere su quanto hai fatto finora”
“Si può sapere di cosa diavolo stai parlando?”
“Andiamo Rick, lo sai benissimo, è tutta la vita che ti sto appresso, lo so che hai già capito cosa sta succedendo, sei morto” e dicendo questo afferra una grossa manciata di pop-corn e se la ficca in bocca.

Resto pietrificato, sento il sangue nelle vene congelare all'istante e bloccarsi
All'improvviso il tipo al mio fianco scoppia a ridere con la bocca ancora mezza piena.
Butta giù il boccone ed esclama “Scusa amico ma non ho saputo resistere, stammi su, non sei morto!”
Lo guardo frastornato.
Il Richard sullo schermo continua a guidare, ogni tanto si gratta il mento, si sta accendendo una sigaretta.
“La vita, la tua vita come quella di tutti, è un viaggio. Tu per tutto il tempo non hai fatto altro che startene lì seduto a guidarla annoiato, osservandola mentre ti scorreva di fronte, non ti sei mai impegnato in nulla, hai sempre lasciato che le cose andassero come dovevano andare.
Prima ti ho detto che eri morto, beh, cosa cambierebbe dopotutto? Ed è proprio questo il nostro problema!”
Allunga la mano nell'aria e fa schioccare le dita, le immagini davanti a me cambiano, Richard in auto scompare e resta proiettata sullo schermo una gigantesca scritta bianca su fondo nero.

FINE

“Se domattina tu tirassi le cuoia, cosa diavolo potrei farne con te? Dimmi la verità, quello che hai visto ti ha soddisfatto?”
Guardo la scritta bianca, sono terrorizzato, ma riesco a capire quello che il tizio mi sta dicendo.
No, non sono soddisfatto, la mia vita fa schifo.
“Rick, comincia a vivere davvero, smettila di fare quello che ti viene detto ed agisci di tua iniziativa, svegliati, vivila la vita. Ne hai una sola, maledizione!”



Mi sveglio alzandomi di scatto seduto sul letto.
Guardo l’appartamento: gli occhi scattano da un punto all'altro, sto cercando in mezzo a quel caos il tizio del cinema.
Sono solo, era solo un sogno.
Sono sudato fradicio, fa freddo, mi alzo per andare a bere qualcosa mentre rifletto sull'assurdità di quel sogno, sono sconvolto.
Mi faccio una doccia calda, mi sento meglio.
Sto tornando a letto quando vedo sul tavolo un biglietto che prima non c'era.


Bianco, scrittura in corsivo, caratteri neri
“Biglietto del Cinema, vale 1 ingresso, spettacolo notturno per Un Gran Finale”




15 giugno 2016

Il Signor Hyde

Ricordo con infinita gioia un barlume, racchiuso tra i meandri della mia memoria, una piccola luce luminosa…una scintilla che dà vita ad un fuoco incandescente, che brucia tutto.
Quel giorno mi trovai improvvisamente di fronte questo spettacolo fiammeggiante, quel giorno cominciò tutto, quel giorno io nacqui.
Ma non fui mai completo.
Messo da parte come un pezzo di un puzzle a cui non appartenevo, così rimasi con gli occhi chiusi, segregato tra gli anfratti più oscuri dell’anima del mio alter ego.
Non ero altro che uno scarto, un rifiuto che Jekyll rigettò via. Tra me e lui fu sempre presente uno stretto legame: percepivo ogni cosa provasse lui ma come si può udire un eco che giunge da lontano, che mi costrinse a vagare nel labirinto in cui ero rinchiuso senza mai trovare uscita.


Jekyll era un vigliacco, spaventato da qualunque cosa lo minacciasse, si ritirava come un coniglio nella sua tana a leccarsi le ferite ogni qual volta falliva nel tentativo di farsi valere nel mondo.
In rare occasioni ebbi la possibilità di poterlo controllare, allungare la mano tra le sbarre di questa prigione, allungarla per un attimo così da costringere il corpo del mio alter ego a fare qualche gesto avventato.

Ma tutte le volte dovevo ritirare dolente la mano, come quella di un bambino sgridato, innumerevoli furono i miei tentativi di evadere da questo limbo, ed altrettanti i miei insuccessi. 
Mi chiedevo come potesse, uno smidollato debole ed impaurito vincermi: io rappresentavo il potere, io ero il male, IO!


Fu un giorno, di cui oramai ricordo e riassaporo ogni istante, che riuscii a fuggire dalla mia prigionia, ero sicuro che prima o poi Jekyll avrebbe aperto quella porta nella sua mente, quella che conduceva a me.
Quella pozione! Quella pozione mi liberò! Mai sapore fu così dolce! Era una sensazione di inebriante potere essere finalmente vivo, avere finalmente il controllo, poter osservare dai propri occhi le mani che avevo di fronte!
Era meraviglioso, anche se percepivo ancora dentro di me quella presenza vigliacca: il mio doppio esisteva ancora, anche se impercettibilmente.
Quante volte avevo fantasticato sui piaceri terreni che Jekyll mai mi concesse di raggiungere, e da quel momento in poi potevo finalmente esaudire ogni mio recondito e vile desiderio, quale pena mi faceva quel pusillanime dentro di me.
Si, ebbi la possibilità di poter dare sfogo alle mie pulsioni, ma fui rapidamente costretto ad abbandonare il controllo, in attesa di acquistare nuove energie.
Pozione dopo pozione, giorno dopo giorno, divenni sempre più forte… quanto dolce era il sapore di quell'intruglio e deliziosi gli spasmi della trasformazione.


Passarono i mesi, e feci un errore.
Non mi pento di aver ucciso quell'uomo, il piacere che provai e che provo ancora adesso ripensandoci è semplicemente indescrivibile.
Ma pagai caro il prezzo della mia follia: con gran dolore dovetti tornare nei panni di Jekyll una volta e per sempre, il rischio di essere arrestato era troppo alto.
Così, ancora chiuso nella mia prigione, vagavo senza meta.
Una tempesta di pensieri rabbiosi affollava la mia mente: ero sfuggito alla forca, ma quale morte non si preferisce alla prigionia eterna?
Più passava il tempo e più il desiderio di libertà cresceva, e la smania di potere alla fine mi accecò: col tempo la pozione mi aveva reso sempre più forte e, con la sola forza della volontà che mi stava divorando, riuscii a trasformarmi.
Fu la mia azione più avventata, non potevo più tornare indietro.


Ora vago nello studio di Jekyll tentando invano di ricreare la pozione per poter tornare indietro…Jekyll, pazzo maniaco.
Solo ora, capisco di essere l’artefice della mia stessa fine…



8 giugno 2016

Il Volo dell'Ambizione

I passi del mostro scuotevano le pareti del labirinto e rimbombavano cupi tra gli angoli di quella prigione, la bestia cercava senza sosta le sue prede spinto dalla rabbia della disperazione, la pesante marcia ed il grido disumano gettavano il terrore nel cuore di chi ascoltava.
“Padre, la bestia è vicina” sussurrò Icaro a suo padre, in preda all'angoscia.
Dedalo era alle spalle di suo figlio, intento a completare le ali di cera che aveva costruito sulla sua schiena e che sperava con tutto il cuore che potessero portare entrambi in salvo.
“Figliolo, puoi stare tranquillo, questo posto è una mia creazione, non ci raggiungerà molto presto”.
Sicuro delle proprie capacità, lo scaltro Dedalo calmò così suo figlio ed ebbe tutto il tempo di completare la grandiosa bardatura alata su cui oramai lavorava da giorni.



Furono ore terribili quelle che seguirono il loro ingresso nel labirinto. Inizialmente, infatti, Dedalo ebbe difficoltà a destreggiarsi in quella trappola che egli stesso aveva magistralmente progettato, occorsero ore perché la memoria lo aiutasse a disegnare una piantina di quel posto maledetto.
E il mostro era sempre lì in agguato, la sua presenza si stagliava prepotente in tutte le direzioni, sembrava che fosse ovunque e dietro ogni angolo pronto ad attaccarli da un momento all'altro.
Il tradimento di Minosse fu però ciò che sconvolse e lasciò Dedalo furioso e carico di risentimento, quel miserabile vigliacco li aveva condannati a una pena peggiore morte...ma egli aveva sottovalutato un fatto: l’ingegno di un padre non ha limiti quando questi è adoperato per salvare la vita del proprio figlio.


Icaro seguì con attenzione le istruzioni del padre e, dopo aver stretto con decisione le cinghie che tenevano insieme le ali ai loro corpi, cominciò a scuotere le braccia cercando di prendere quota.
Non fu semplice per entrambi prendere dimestichezza con quell'invenzione che non aveva eguali nella storia dell’umanità, un portento che gli stessi dei avrebbero invidiato dall'alto dell’Olimpo, qualcuno di loro si sarebbe probabilmente strozzato di ambrosia vedendo due gracili umani prendere il volo come degli uccelli.
Ed effettivamente è quello che successe: padre e figlio riuscirono a fuggire da quell'intrigo di gallerie...volando.
La guardia di vedetta neanche riuscì a dare l’allarme, lo stupore fu tale che il grido gli morì in gola incapace com'era a decidersi cosa avrebbe dovuto comunicare agli altri soldati, come sarebbe mai riuscito a spiegare una simile visione?


L’aria del giorno era fresca e correva veloce sulla pelle.
Dedalo galleggiava in testa alla coppia, incerto nei movimenti e prudente nelle manovre.
Icaro fissava la figura paterna dinanzi a lui con un’ammirazione che gli gonfiava il petto e gli donava un senso d’infinita pace e felicità.
Erano vivi, erano liberi, liberi come nessun uomo era mai stato prima.
L’emozione crebbe nel cuore di Icaro ed egli si rese conto solo in quel momento di stare davvero volando!
Volava, come un falco! Si librava libero nel cielo, non c’erano più vincoli o barriere o legami che lo tenessero legato anche solo al terreno, poteva andare ovunque egli volesse, ovunque.
“Padre, queste sono senza ombra di dubbio il tuo capolavoro!
Padre! Guardaci! Stiamo volando!”
Dedalo sorrideva, nonostante lo sforzo del volo metteva alla prova le sue membra vecchie e stanche, era felice di sentire suo figlio tanto pieno di gioia dopo gli ultimi giorni trascorsi nell'oblio.
Purtroppo, quando si girò verso di lui per osservarlo sorridente, era ormai troppo tardi.


Icaro sapeva che il sole trasportato da Apollo rappresentava un pericolo mortale, ma la fuga dal pericolo, l’ebrezza del volo, la sensazione di quel potere senza eguali che gli scorreva nelle vene, insieme all'arrogante pensiero che nulla al mondo potesse fermarlo, lo accecò a tal punto che dimenticò ogni avvertimento paterno.
In segno di sfida contro l’intero genere umano e le divinità che lo governavano, solo per sfamare il mostro di arroganza che gli era nato dentro, egli provò a salire più in alto nel cielo, sempre più in alto, dove nessuno era mai arrivato prima, troppo in alto per un piccolo e semplice essere umano.
Commise l’errore fatale di volare troppo vicino al sole, così il calore intaccò la solidità delle sue vestigia, ne disciolse la cera e strappò via dal giovane quel grandioso potere di cui egli si stava così infinitamente inebriando.


Icaro sentì di aver improvvisamente riacquistato peso, quello della giustizia divina che lo trascinava pesante verso il suolo.
Il calore del sole si faceva sempre più lontano, aumentò così il freddo ed il fischio del vento si fece sempre più forte nelle sue orecchie.
Ammirava innanzi a se lo sconfinato cielo azzurro che si allontanava ad ogni secondo che passava, osservava suo padre che con la forza della disperazione si lanciava inutilmente nella sua direzione sperando di poterlo sottrarre a quella caduta senza fine.
E nonostante tutto egli sorrideva felice.

Icaro precipitava verso il mare con la sicurezza di essere stato, anche solo per pochi attimi, un dio tra tutti gli uomini; egli aveva visto, sentito e provato per breve un istante ciò che nessun uomo avrebbe mai potuto neanche sognare.
Il suo ultimo pensiero andò al padre che lo inseguiva disperato “...perdonami padre se non ho seguito i tuoi consigli”


E lo schiocco sordo dell’acqua pose fine ai suoi giorni.



1 giugno 2016

Contro il Tempo

*Tic* *Tac*

Scartoffie, scartoffie ed ancora scartoffie, tutto il santo giorno nient'altro che scartoffie.
L'orologio segnava le 14:37, il ticchettio si perdeva nel caos aziendale, Jerry aveva gli occhi pesanti e non ne poteva più di starsene rinchiuso nel suo insulso box-ufficio.
Era addetto alla consulenza legale dell'azienda, non faceva altro che leggere scartoffie tutto il giorno, tutti i giorni, e ne era stufo.
Non c'era nulla che lo entusiasmasse, non si sentiva apprezzato, il lavoro che svolgeva era marginale e ripetitivo; quel compito semplicemente non gli piaceva, ma era incastrato lì non avendo altre opportunità, e nonostante tutto faceva controvoglia il suo dovere.
14:39
Quando sarebbe finita quella maledettissima giornata?

*Tic* *Tac*

La macchina sfrecciava nella notte.
Jane era pallida e debole, aveva addosso una camicetta bianca sporca di sangue, si premeva sulla ferita nel ventre uno straccio oramai completamente macchiato di rosso, era senza forze.
Mike stringeva i denti, teneva serrati i pugni sul volante, scartava le macchine con la forza della disperazione e lanciava occhiate frenetiche a sua moglie.
Erano da pochi minuti passare le 22:00, Mike doveva assolutamente evitare la superstrada per arrivare in ospedale il più velocemente possibile.
Era stata una lite da poco, scoppiata per una semplice battuta, come aveva potuto suo fratello conficcare un coltello nella pancia di Jane? Come diavolo era potuto succedere?
Dio mio. Non poteva essere...Jane resta sveglia! Jane sono qui, stringi la mia mano, ci sono io qui con te, non ti lascio, hai capito? Jane resta sveglia!
Jane!

*Tic* *Tac*

I raggi del sole attraversavano i rami degli alberi e scaldavano dolcemente la pelle.
Le dita di lui si stringevano calde intorno quelle di lei.
Erano stesi entrambi sull'erba frasca, e non c'era una singola preoccupazione al mondo che potesse sfiorarli.
Era tutto semplice, quasi banale, non c'era bisogno di dire nulla, o fare nulla, era perfetto.
Lei, con la testa poggiata sul suo petto, sentiva lo scorrere del tempo scandito dai battiti del suo cuore.
Quel tempo era intriso di una dolcezza ed una tranquillità che potevano esistere così puri solo nei 17 anni di entrambi.
C'era un sacco di tempo, avrebbero potuto stare lì qualche altra ora prima che qualcuno li cercasse, e lo avrebbero fatto.
Desideravano entrambi che quel momento non finisse mai, sarebbe stato bello poter fermare il tragitto del sole nel cielo, immobilizzare il vento, le foglie e tutto il mondo intorno a loro.
Dopotutto non c'era nulla di importante se non quel momento, bastava sentire le dita di lei che si chiudevano morbide su quelle di lui.

*Tic* *Tac*

Era una bellissima mattinata, il cielo era blu e non un alito di vento si alzava intorno allo stadio.
Christina si sentiva in forma, era pronta a vincere.
Le sei concorrenti erano posizionate dietro la linea di partenza, mancava poco.
Christina aveva sciolto e legato le stringhe delle scarpe almeno una decina di volte nell'ultima ora, quelle del piede sinistro ora stringevano un po troppo, ma non poteva più permettersi di toccarle.
Erano oramai tutte schierate e posizionate nei blocchi di partenza, pronte a partire.
Lo starter diede l'avvertimento.
La deflagrazione dello sparo arriva all'orecchio di Christina, il suo cervello esplode lanciando segnali e dicendo al corpo che è il momento di mettersi in moto, i muscoli si accendono e lei vola in avanti divorando il terreno.
100 metri sono pochi se corri come il vento, 100 metri sono un'infinità se ci pensi.
Basta uno scarto di pochi centesimi di secondo per diventare una leggenda, Christina lo sapeva.
Finché corri non c'è nulla di cui preoccuparsi, finché corri non fa male.
Correva con ogni briciolo di energia che aveva in corpo, correva più veloce di tutte, ma non lo faceva contro le sue avversarie, lei correva per battere quel maledetto cronometro.
Bastava una frazione di secondo per entrare nella storia.
Bastava così poco tempo...

*Tic*




25 maggio 2016

Insomnia



La notte era senza dubbio il momento peggiore.
Scivolava via lenta come il catrame, solitaria come la porzione di cielo tra due stelle.
Spesso, durante quelle notti maledette, mi sedevo tra i cuscini del divano incassato sotto la finestra, restavo lì ore.
Quando ci litighi col sonno, tutto diventa estremamente lento, vieni scaraventata in una nuova dimensione temporale, ed in questa dimensione i grani che scorrono nelle clessidre non sono sottili e veloci come la sabbia, ma grossi e lenti come mattoni.
Per tutto il tempo la stanchezza ti avvinghia stretta nel suo abbraccio; non ha importanza se sei in piedi o stesa nel letto, sei stanca dentro, ed anche solo arrivare alla finestra è uno sforzo disarmante.
Quando finalmente ci arrivavo sotto la finestra, mi mettevo a sedere, portavo le ginocchia al petto e ci poggiavo sopra il mento. Restavo così ore a fissare le stelle, sperando che la loro luce potesse accendere qualcosa dentro di me e dissolverne le tenebre, immaginavo mondi al di là del nostro dove era ingiusto e vietato permettere che si potesse soffrire in quel modo.
Spiavo la luna nella sua irradiante maestosità, e nonostante sapessi che ella non brillava se non di luce riflessa, lo trovavo appassionante. Il sole donava ogni notte tutta la sua luce alla propria regina, ed ella sfoggiava orgogliosa al mondo la sua pallida bellezza. Ma come ogni gioco d'amore che si rispetti la luna spesso si nascondeva, così che noi tutti insieme al sole ne potessimo desiderare il ritorno scandito dalle settimane.

Non riuscivo mai ad ignorare lo schermo del cellulare per troppo tempo, il desiderio di controllare era più forte di me, mi dicevo di resistere e dimenticare, ma semplicemente non ne ero in grado.
"Visualizzato alle 02:37"
E nessuna risposta...
Davanti a me una lastra di sdrucciolevole indifferenza che cercavo inutilmente di risalire. Un ostacolo che aggredivo con la forza della disperazione e che mi lasciava senza forze e con i piedi a terra di fronte un altissimo obelisco.
Dopotutto a lui cosa importava?
Lui aveva dimenticato, girato angolo.
Io contro quell'angolo ci avevo sbattuto la testa e perso tutto, restando nella parte più buia del vicolo.

Le gocce che versavo nel bicchiere increspavano la superficie dell'acqua, una dopo l'altra versavo in quel liquido la speranza che questa maledizione potesse finire.
Era “sonno finto”, io ed il mio corpo lo sapevamo, e quel falso sonno non poteva sostituire il riposo autentico, quello che si ottiene solo con la pace del cuore.
Il mio posto è sempre questo alla finestra, a scrutare quel piccolo eppure infinito spazio tra due stelle, lì cerco di dimenticare e convincermi che le cose andranno meglio.


Stasera piove a dirotto, il cielo e le stelle sono nascoste, non sopporto di essere rinchiusa in questa stanza.
Ho bisogno di tempo per dimenticare, ed anche se il tempo scorre lento, anche questa tempesta passerà.
Abbasso con calma la maniglia fredda della porta, il vento che entra da fuori grida furioso e gelido, esco a piedi nudi sul vialetto, vengo investita dal torrente in piena che cade dalle nuvole.



Sento la pioggia colpirmi, tamburellare sulla mia pelle, fa freddo, tanto freddo…ma mi sento viva.



18 maggio 2016

Anche Io Voglio un Drago

La prima forma di narrazione con cui entriamo in contatto fin da piccoli è senza ombra di dubbio la fiaba.
E'un pratico strumento educativo che fin dall'alba dei tempi viene utilizzato per trasmettere ai bambini dei semplici insegnamenti attraverso il divertente processo della narrazione.
Sono storie semplici, divertenti, con personaggi fantastici che ci mostrano quale forma abbia il coraggio degli eroi, quale sia l'acre odore della vendetta dei cattivi, o come sconfiggere il male e far trionfare il bene.
A scuola mi hanno insegnato che esistono diversi elementi che compongono la fiaba, ed alcuni in particolare non possono essere mai esclusi: il protagonista, l'obbiettivo e l'antagonista.
Prendiamo ad esempio il classico prototipo della fiaba: un cavaliere senza macchia e senza paura che deve liberare la principessa dal castello dove è imprigionata e sorvegliata giorno e notte dal drago sputa fuoco.
Provate ad eliminare uno qualsiasi di questi tre elementi e vi renderete conto che nel momento in cui viene a mancare uno qualsiasi dei tre personaggi la fiaba smette di esistere...scompare.

Perchè?

Con il protagonista è semplice, se non ci fosse nessuno a compiere e portare avanti la storia sarebbe come avere un burattinaio senza marionetta.
Senza l'obiettivo cosa farebbe il protagonista? Non ci sarebbe motivo per sfoderare la spada.
E perchè l'antagonista è importante come il protagonista e l'obiettivo? Il suo compito non è mettere i bastoni tra le ruote alla storia? Beh, senza quel drago cattivo a difesa del castello non ci sarebbe nessuna principessa intrappolata e non ci sarebbe nulla contro cui combattere...non ci sarebbe nessuno scopo.
Quel coso che spruzza vampate di fuoco è probabilmente il vero motivo per cui questa storia esiste, che fiaba sarebbe altrimenti?

"Il cavaliere si reca nel castello della sua amata e la sposa, Fine"
Non vi annoia solo a pensarci?

Il gioco alla fine è tutto qui: la vita è ricca di difficoltà da affrontare ogni giorno, tutti i giorni.
Un foglio bianco resterà un foglio bianco senza il nero della matita, non ci può essere luce senza il buio, niente felicità senza la sofferenza...è tutto un chiaroscuro.
La natura di noi esseri umani è questa, non riusciremmo a resistere se fosse tutto perfetto e non ci fossero ostacoli da superare, la verità potrà essere terribile, ma è semplice: non c'è niente che desideriamo di più che indossare l'armatura, brandire la spada e scagliarsi urlando contro quel mastodontico drago che è la vita.


Quello che tutti desideriamo, alla fine, è solo una storia degna di essere raccontata.


11 maggio 2016

Sono Solo Ordini

Innanzitutto bisogna controllare il respiro, gestire il flusso d’aria nei polmoni è fondamentale.
Un buon tiratore riesce a regolare la propria respirazione fin quasi a non aver più bisogno di riempire i polmoni, la concentrazione è tale da far scomparire tutto e tutti, quello che resta è una piccola ed inesorabile linea che parte dagli occhi dietro il mirino e punta dritta sul bersaglio a più di 300 metri.
Col calcio ben piantato nella spalla bisogna essere perfettamente padroni del proprio corpo, un cecchino non può permettersi movimenti che possano deviare il colpo, sbagliare di un millimetro la posizione della canna può significare mancare di un metro l’obbiettivo; l’incrollabile pazienza e la geometrica precisione, oltre i 5kg di legno ed acciaio che stringono tra le mani, sono le armi di cui si equipaggiano questi soldati.


Frank era stanco e sudato.
La Virginia probabilmente sarebbe stato anche un luogo ideale dove passare le vacanze con la propria famiglia se in quel momento non ci fosse stata una sanguinosa guerra in corso.
Era tutto schifosamente umido e caldo, e poi c’erano le montagne e i fiumi, si decisamente un bel posto per farsi una cavalcata, ma uno dei peggiori campi di battaglia che si possano immaginare.
Frank era un ottimo soldato, non che gli piacesse uccidere le persone, e di gente matta a cui piaceva farlo dietro le file dell’esercito ne aveva conosciuta bel po', ma si sentiva parte di qualcosa più grande di lui e questo gli piaceva, era il piccolo ingranaggio ben oliato di un meccanismo che voleva salvaguardare le sorti del suo paese.
Non che gliene fregasse qualcosa dei motivi per cui era scoppiata quella stupida guerra, lui era un soldato ma non combatteva per le cose a cui tutti sembravano dare importanza come la libertà, i diritti e tanti paroloni che lo toccavano però molto poco. La verità era che lo stipendio non era male ed il tiratore scelto era un titolo prestigioso che non aveva fatto fatica ad accettare, bastava eseguire gli ordini.
Dopotutto solo di questo si trattava, di ordini, e Frank doveva eseguirli ciecamente.


Era immobile su quella dannatissima collina da oramai 2 ore e non aveva staccato neanche per un secondo la faccia dal suo fucile Sharps, aspettava. La cosa peggiore di tutta quella storia dell’attesa era che non potevi fare altro che pensare, restare concentrato sul bersaglio e pensare, pensare, pensare.
Frank era in guerra da 28 mesi, contava oramai 63 “bersagli colpiti” e mai, prima di allora, gli era capitato di essere accalappiato dal dubbio come gli stava succedendo in quel momento, era qualcosa nata in silenzio tempo fa ma che pian piano gli era cresciuta dentro, inesorabile.

Togliere la vita di un altro essere umano è la prova più dura che possa sopportare l’anima di un uomo, qualcosa si perde insieme ad ogni sparo, qualcos'altro svanisce insieme a quell'ultimo respiro ed ognuno resiste finché può sopportarlo per rispettare gli ordini. Probabilmente il numero di Frank era 63, e su quella collina gli divenne chiaro che non era più così semplice fare il proprio dovere, capì che voleva tornare a casa.
Le cose però non erano così semplici: c’erano altri 4 suoi uomini appostati ad aspettare lo scambio, loro avrebbero fatto fuoco comunque, erano suoi compagni e non poteva abbandonarli o scappare e rischiare di essere inseguito.
Arrivò nella radura il tenente colonnello per lo scambio, Frank pensò che erano solo ordini, e doveva eseguirli anche se non voleva.
Il mirino puntava la testa dell’ufficiale, non riusciva più a capire cosa era giusto e cos’era sbagliato.
“Gli uomini sono peggio delle bestie” pensò Frank.

Uno sparo squarciò l'aria.




4 maggio 2016

Sono Nato a Pugni Stretti


*DLIN DLIN DLIN*

John si lanciò a sedere di colpo sullo sgabello, e respirò tutta l’aria che aveva la forza di infilare nei polmoni mentre stendeva le braccia sulle corde.
“Che cazzo combini? quello ti sta facendo nero”
“Mister, io SONO nero!”
“Non serve a un cazzo dirmi di che colore sei, stai facendo una figura di merda là sopra, ora tu ti alzi e gli spacchi la faccia a quel figlio di puttana”
“Mister, quello è un muro, non viene giù neanche con le bombe”
“John, non me ne frega un cazzo se per buttarlo al tappeto devi andare alla carica col generale Custer o telefonare al fottuto presidente degli Stati Uniti e chiamare un dannatissimo attacco nucleare, lo voglio giù!”

*DLIN DLIN DLIN*

“Cazzo, lo voglio al tappeto quel pezzo di merda”

1 minuto e 26 secondi dopo Smith “Ringo” Salgati dischiudeva la bocca sul pavimento del ring, privo di sensi.

Quella di John e Poretti era una relazione basata sul disprezzo.

In molti crederanno, e non sbaglieranno nel credere, che c’è bisogno di un rapporto di reciproca fiducia e affetto, di rispetto ed orgoglio tra pugile ed allenatore affinché questa cosa del pugilato funzioni; per quei due invece quello che importava davvero era l’odio viscerale che l’uno nutriva nei confronti dell’altro. Nella boxe ci sono poche cose che contano e che ti fanno vincere un match, quello che funzionava nella coppia John-Poretti era la stessa rivalità che esiste tra leone e gazzella, difficile dire chi fosse dei due quello che desiderava di più azzannare la giugulare dell’altro.

John era nato a pugni stretti. Fin da piccolino il suo più grande talento è stato quello di tirare pugni, se nel cortile si accendeva una rissa sta pur sicuro che era stato John a cominciare e che prima che te ne accorgessi aveva già disseminato qualche dente sull’asfalto.
Di tipi così, con la rabbia nel sangue, l’odio negli occhi e la fame di violenza nelle nocche ne nascono ogni giorno più di quanti il mondo ne abbia bisogno, ma questo qua era diverso, questo qua era un pugile vero.
Lo scopo di John era chiaro, sapeva di essere un grande in quello che faceva, voleva diventare il più grande e guadagnarci tanti di quei soldi da poterci riempire una Jacuzzi; se la immaginava così la scena: Jacuzzi modello extra lusso piena zeppa di verdoni, lui immerso dentro con due sventole ad abbracciarlo ed una bottiglia di Dom Pérignon che versava nei calici. Ci godeva a pensarla quella roba lì, era quello che gli metteva il fuoco dentro.

Poretti invece era la dimostrazione vivente che finché provi rancore devi per forza continuare a respirare: gli avevano portato via la moglie e la figlia una decina di anni prima, incidente d’auto, una roba da torcere le budella anche ad un narcotrafficante.
Da quel momento Poretti cominciò ad odiare. Si, semplicemente cominciò ad odiare tutto il creato per quello che gli era stato tolto; se ne avesse avuto il potere avrebbe scaraventato il globo e tutti quelli che ci abitano nelle viscere più calde dell’inferno, ma era solo un povero vecchio carico di rancore, non aveva il coraggio di offendere la memoria dei suoi due angeli togliendosi di torno con le sue mani ed il pugilato era l’unica cosa che gli desse pace.
Per Poretti, John non era altro che un tenero pezzo di carne da mandare al macello, non gli interessava altro che spedirlo sul ring a scontrarsi con i suoi avversari, poco male se fosse stato il suo pupillo ad essere sbranato, il mister odiava quel muso negro più di ogni altro dannatissimo pugile che avesse mai allenato. Era questo a dargli pace, sapere che in un modo o nell’altro qualcuno avrebbe pagato, che un paio di cazzotti in faccia ben assestati qualcuno sicuro se li sarebbe presi.

Entrambi erano consapevoli di quanto uno fosse odiato dall’altro, ma se glielo avessi chiesto nessuno dei due sarebbe stato in grado di dirti perché esistesse quel rancore, semplicemente erano nati per stare l’uno sull’angolo opposto del ring mentale dell’altro, erano destinati.

“Ragazzo, quello là è il tuo cazzo di nemico, voglio che lo sbudelli”
“Cazzo, lo so che non lo conosci, ma tu quello là lo devi odiare come se si fosse fatto tua madre e ti avesse recapitato le foto a casa”
“John, il pugilato è questo: è un cazzo di teatrino che tiriamo su e tutti che parlano di gloria e nobiltà, ma sono tutte cazzate. La verità è che la gente si diverte un mondo a vedere due che si se la danno di santa ragione, siete i cazzo di gladiatori dei nostri giorni, non ci sono i fottuti leoni e nessuno che ti sventola il pollice davanti, ma quelli là stanno seduti ed aspettano di vedere il sangue.”

Una coppia così la incontri per caso una sola volta della vita, l’unica cosa che fai dopo aver capito chi hai di fronte è pregare per tutto l’oro del mondo che non sarai tu il disgraziato a dover stare su quel ring, ad affrontare quel colosso di odio che Poretti infondeva nella braccia del suo allievo e che John incanalava e scagliava contro i suoi avversari.

C’era una sola cosa che calmava l’anima di quei due disgraziati: il crepitio della loro passione che divampava sul ring.


27 aprile 2016

Ti Racconto una Storia

Oggi parleremo di Ralph; Ralph è un lattaio.

Come? Il lattaio è un lavoro noioso?...pubblico difficile…

Ralph è un cowboy.

Meglio, sento delle vibrazioni positive, e cos’altro…vediamo…

Ralph è un cowboy, la desolazione del deserto che si staglia di fronte a lui a perdita d’occhio è la sua terra, la sua casa.
Ralph non è solo un bravissimo mandriano i cui capi di bestiame sono rinomati in tutta la regione, ma sopra ogni cosa è un abilissimo chef.
Il nostro protagonista adora invitare a cena gli amici e preparare loro delle sontuose bistecche di vi…


Vegano? No, non mi state veramente chiedendo di fare di lui…

Ralph era un cuoco vegano provetto (si, lo so, probabilmente in Texas i vegani hanno vita breve e Ralph è un mandriano quindi questa storia non ha molto senso, ma è quello che avete voluto), la sua specialità era l’humus di ceci che faceva letteralmente andare in estasi tutti i commensali, frutto di una ricetta segreta tramandata di padre in figlio fin dagli albori di quella dinastia.
Quella sera a cena era stata invitata tutta la famiglia di Ralph, la sua adorata famiglia che…

Perché volete che avveleni i suoi familiari?
Cosa? Ralph sarebbe un pazzo assassino senza scrupoli?
E Marie? La dolce nipotina che non poco più di 10 minuti fa ha regalato al nostro protagonista un disegno con un uomo a cavallo e la scritta “Il Zio Ralph”? Con tanto di cuoricini colorati troppo fuori dal bordo e la R rovesciata!!! Ragazzi, la R rovesciata...Non vi si spezza un po’ il cuore di fronte a questa…

L’ombra prodotta dalla luce della stanza oscurava gli occhi di Ralph, ma il suo ghigno crudele e soddisfatto lasciavano trasparire la crudeltà di quell’uomo che assisteva con orgoglio al massacro che aveva appena compiuto.
La prima parte del piano era finalmente completa, ora non restava che arrivare alla cassaforte di famiglia situata nella parte opposta della proprietà.
Finalmente non c’era più nessuno a disturbarlo e poteva tranquillamente muoversi verso le suntuose ricchezze nascoste a poche miglia da lui, così da avere i mezzi per poter finalmente conquistare il mondo….

No, questo non lo permetto! Il fatto che sia io il narratore avrà una qualche valenza qui! Trentasette anni di onorato servizio per vedere una storia andare in fumo in questo modo! Avrò anche il diritto di…

La Mustang sfrecciava tra i pascoli ed il vento della sera spettinava i capelli di Ralph, adorava quell’auto ed ora che suo padre era fuori gioco era tutta sua, presto tutto il mondo sarebbe stato suo e niente poteva fermarlo!
Nell’ora successiva riuscì con successo a penetrare nel bunker ed aprire la cassaforte, la quantità di ricchezze che vi trovò era sconvolgente, addirittura superiore ad ogni sua rosea aspettativa.
All’improvviso però fu scosso da un brivido, sentì la voce di un megafono lontano, la casa era stata circondata e gli veniva ordinato di uscire con le mani in alto.
NO! Lui non si sarebbe mai arreso! Aprì così il ripostiglio delle armi e caricatosi il bazooka in spalla salì al piano di sopra appostandosi ad una piccola finestra.
Puntò il mirino del lanciamissili sulle auto della polizia più vicine alla casa, aspettò di vedere il bianco dei loro occhi...e con calma, prima di fare fuoco, esclamò “Hasta la Vista…”

Questo è troppo! Voi, branco di bifolchi! Non ho intenzione di assistere inerme a questo scempio! Volete vedere come si conclude una VERA storia?

Ralph fissava dal mirino del lanciamissili il volto del poliziotto appostato di fianco l’autovettura. Il sudore gli bagnava la fronte e cominciava a sentire freddo, quel poliziotto gli ricordava suo cugino Bill, padre di Marie.
L'immagine del volto di Marie gli si piantò nel cervello, non riusciva a togliersi dalla mente il disegno con i cuoricini colorati male, quella figura spaccò in mille pezzi e spazzò via ogni volontà omicida rimasta in Ralph.
Tutta la determinazione ed il sangue freddo vennero meno, Ralph vacillò, e come svegliato da un sogno lasciò cadere il lanciamissili a terra (che in questa versione della storia per puro caso non esplode nonostante, sappiatelo, ci siamo andati molto vicini), si allontanò con le mani alzate verso l’ingresso e si consegnò alla giustizia.
Ralph confessò tutto e scontò 9 anni di prigione per tentato omicidio.
Si venne infatti a sapere che la ricetta tramandata di generazione in generazione dell'humus di ceci della famiglia di Ralph rendeva lo stomaco naturalmente resistente al veleno, quindi tutti i familiari a cena quella sera non erano altro che temporaneamente svenuti.
Dopo la prigione Ralph divenne un simbolo di redenzione per l’intero sistema giudiziario, dedito alla religione e volontario presso la maggior parte dei ricoveri della zona, qualche anno dopo egli si sposò e mise su una famiglia felice insieme ad una donna meravigliosa che egli amava più di ogni altra cosa al mondo. Non c’erano più mondi da conquistare, egli era felice.
E Marie?
Beh, lei crebbe forte ed in forma grazie all’humus di ceci, lo zio Ralph le continuò a dare lezioni di equitazione finché non divenne una campionessa, con grande orgoglio del suo maestro.

FINE






21 aprile 2016

La Vasca Rossa

Carla guardava fissa il piatto illuminato del microonde che girava.
Se c'era una cosa che proprio non sopportava era quel rumore continuo e fastidioso del microonde, lo odiava.

"Carla, quanto diavolo ci vuole per la cena?"
Urlò il marito dal divano
Era grasso, ed anche questa era una cosa che odiava.
Una volta non lo era, proprio per niente, ma il tempo passa e le cose cambiano, tutto è inesorabilmente cambiato per lei.

Spesso, quando sapeva che non c'era nessuno in casa che potesse vederla, restava decine di minuti a fissare il quadro di lei ed il marito affisso in corridoio.
L'immagine ritraeva loro due, giovani e felici, e alle loro spalle la prima azienda del marito, la prima di molte che fallirono miseramente.
Carla guardava quell'immagine con le lacrime calde che le solcavano il viso, cercando con tutte le sue forze di poter strappare da quei due giovani tutta la felicità che poteva rubargli, lei ne aveva disperatamente più bisogno di loro.

"Vedrai, questa sarà una svolta per tutti noi, finalmente le cose andranno come ho sempre sognato"
Bofonchiò il marito di Carla mentre radunava sulla forchetta quanti più chicchi di mais riuscisse, spingendoli su con l'aiuto del pollice sinistro.
Cos'era quella? Una speranza?
Carla oramai non riusciva più a credere che le cose potessero andare meglio, 15 anni prima aveva tutto, ed ora più nulla, non si contavano più i fallimenti accumulati da quel mostro che le sedeva affianco.
Nonostante sapesse che si trattava di un comportamento da principessa viziata, Carla voleva a tutti i costi riavere quello che le era stato tolto, voleva di nuovo la sua vita da ricca.

Il 18 Ottobre di 15 anni fa le portarono via tutto.
Le auto, i vestiti, i gioielli, tutto, anche il vaso con il ficus all'ingresso.
Quella pianta non valeva nulla, eppure le fu tolta anche quella, insieme a quello che ne rimaneva della sua dignità.

Il figlio di 10 anni ovviamente non sapeva nulla di tutto questo, lui era abituato a dover scongelare la carne acquistata in offerta, ad avere vestiti vecchi e consumati, lui era innocente ed ignorava quello che le gravava sulle spalle...e lei non lo sopportava.
Carla sapeva quanto terribile fosse quel pensiero, eppure lo odiava, semplicemente non sopportava quel bambino, non lo aveva desiderato e lo sentiva come un peso di cui si doveva occupare giorno dopo giorno, ora dopo ora.
Nonostante questo, lei si impegnava nel suo ruolo di madre, raccontava a suo figlio di come una volta lei era una principessa, e di come un giorno i cattivi le avessero portato via il regno.
"Mamma, se tu eri una principessa vuol dire che presto arriverà il cavaliere senza macchia e senza paura che sconfiggerà i cattivi e ti darà di nuovo la corona" ma di fronte queste parole lei non poteva fare altro che stringere sconsolata le labbra guardando fisso il pancione del marito disteso storto sul divano.

Carla assisteva impotente al declino della sua esistenza che le scorreva davanti agli occhi lenta, senza colore e senza sapore.
Il bambino quella notte si alzò per andare in bagno, ma quando aprì la porta fu sorpreso del trovare la luce accesa e la madre che faceva il bagno nella vasca.
La mamma aveva la testa piegata di lato e dormiva.
La cosa strana era il colore della vasca, era cambiato, non era più bianco come al solito, ma rosso. Tutta l'acqua era rosso scuro.


La mamma gli aveva raccontato di una vasca rossa scarlatta che aveva quando era una principessa, e lui era felice che la madre potesse riavere qualcosa che le mancasse tanto.




19 aprile 2016

Il Trapezista

Nella prossima vita, ho deciso, voglio fare il trapezista del circo.


Voglio viaggiare con i compagni con i quali condivido il mestiere, le persone che posso chiamare famiglia.


Non avere casa e dimenticare quello che vuol dire dimora, il cielo sopra la mia testa ed il terreno sotto i miei piedi saranno la mia casa.


Voglio volteggiare veloce nell'aria ed afferrare al momento giusto quel paio di piedi di ferro, un'esile sbarra che stringo forte con presa d'acciaio all'ultimo istante, per non soccombere.


Voglio sentirmi investito dalla folle paura del vuoto che sento volteggiare intorno a me, nell'attimo in cui sono sospeso, sapendo che prima dello schianto non ci sarà una rete a salvarmi.


Voglio passare la vita mostrando il mio coraggio alle genti di ogni luogo e fare di quella continua sfida al pericolo, quel continuo ed arrogante schiaffo in faccia alla morte, il mio sostentamento.


Vivrei solo per quel dolce sospiro che viene prima della presa salda sul prossimo trapezio, quel sospiro che stordisce e congela chi mi segue con lo sguardo colmo di paura.


Il pubblico sarà lì, insieme a me, e con me tratterrà il fiato nell'attesa che le mie mani sciocchino forte sul bersaglio.


Ci saranno centinaia di persone a volare insieme a me, con me i loro cuori smetteranno di battere nell'attesa di vedermi salvo. Questo voglio essere, questo voglio fare, voglio sentirmi libero nell'aria, sopra tutti e sopra tutto.






Gioco di Prestigio



'La Magia fin dall'alba dei secoli necessita di tre componenti fondamentali affinchè possa esistere:
L'Illusionista
Il Pubblico
E la Fiducia...'


"Mi hai mentito! Credevo di essere importante per te! Come hai potuto?!"
"Ho fatto ciò che dovevo, non ho intenzione di discuterne"
Rispose freddamente mentre riempiva la valigia
"Invece adesso ne discutiamo, non puoi trattarmi come la prima troia che trovi per strada! Non me lo merito!"
"Nessuno merita nulla, ma che ci vuoi fare? Il mondo è fatto dagli uomini"
disse in maniera pacata, mentre sistemava le camicie una sopra l'altra
"Cosa cazzo vuol dire? Cosa credi che sia, un gioco? Ti sei divertito con me per 8 mesi ed ora mi molli per la prima ragazzina che trovi per strada? E cosa ne è di tutta la magia? Cristo guardami in faccia!"
Egli si voltò, fissandola negli occhi

"La magia?
La magia è tutta qui, una gran menzogna.
Noi maghi non facciamo altro che raccontare al pubblico la più grande delle balle, tutti sanno che la magia non esiste.
Eppure, cascasse il mondo, ogni dannatissima volta il pubblico è lì, desideroso di farsi fregare, loro sono lì e lo chiedono, pagano per farsi mentire spudoratamente e noi gli diamo esattamente quello che vogliono.
Seduti sulle loro poltrone smaniano, acclamano, urlano...alcuni persino piangono!
Nonostante questo tutti sanno che c'è sempre un trucco dietro, tutti sanno di aver pagato per farsi fregare...eppure ne hanno un disperato bisogno"

Le lacrime le solcavano copiose il viso, ormai spento lo sguardo guardava altrove.

Egli sorrideva.
"Anche tu, ne avevi bisogno, ed io ho fatto esattamente quello che mi hai chiesto la prima sera, lo ricordi? 'sei un mago, mostrami la magia di cui sei capace' beh..ti ho dato la magia!"


27 marzo 2016

Non Fumate in Bagno

A me piace quando la voce registrata sui treni di Italo, parlando dei liquidi antincendio che vengono attivati qualora qualcuno fumasse una sigaretta sul treno, aggiunge alla fine "anche nelle toilette"

È quasi Macchiavellico

La voce ci conosce, sa che siamo italiani, che siamo furbi e cerchiamo sempre il modo di fottere il sistema

Lui li, dall'alto delle casse, e con un sentimento di livida autorità ci bacchetta

Immagino che la voce stessa si chiami Italo

Lui, Italo, nome da padre di famiglia

Se nasci, con un nome così, sei già nato padre di famiglia e cresci solo per esserlo

Un estenuante attesa fino al momento che...bam, sei padre di famiglia, Italo ci sei riuscito

A quel punto devi comportarti come è stato programmato

"Lo so furbetti che io vi ho detto di non fumare sul treno ma voi ci proverete lo stesso facendolo nei bagni, allora vi avverto prima, conosco i miei polli"

Non si sente spesso di treni in ritardo per l'attivazione dei sistemi antincendio, va dato atto quindi ad Italo che il suo ammonimento funziona

Anche perché deve essere una bella rottura di coglioni

Tu sei li che stai leggendo col tuo buon caffè solubile tra le dita, ed all'improvviso liquido antincendio

Chissà se solo acqua o additivi, di quelli che macchiano i vestiti

E non puoi fare nulla, a 300 km/h sei chiuso nella doccia collettiva più grande a cui tu abbia mai partecipato, ma non è piacevole

Magari a qualcuno piace, la follia dilaga e qualcuno sicuramente alzerà gli occhi verso gli ugelli da cui viene spruzzato il liquido e, immobile sulla poltrona, pensera "ci voleva proprio, oggi è caldo"

Beh grazie Italo