24 febbraio 2017

29 giugno 2016

Vera Van

Vera era nata con il luccichio negli occhi.
Occhi vispi, allegri e più di ogni altra cosa curiosi.
Vera la curiosità, la voglia di vivere, ce l’aveva nel sangue.
La prima volta che vide una pozzanghera, e vi posso assicurare che era una pozzanghera enorme per una bambina così piccola, lei ci saltò forte con i piedi dentro e schizzò acqua ovunque.
Non era la classica peste, era tranquilla lei, solo era curiosa di sapere cosa sarebbe successo se lo avesse fatto, e la cosa la divertì un sacco.
Poi un giorno cominciò a parlare, ed il mondo si colorò di un nuovo suono.
Avete presente quando avete finito di pranzare e sentite in fondo alla bocca quel bisogno di qualcosa di dolce?
“Beh, ora il dolce ci starebbe proprio bene”
Ecco, quella sensazione lì, quel formicolio delle papille gustative.
Era così che il mondo aspettava le prime parole di Vera, e queste arrivarono.
Certo non è che fossero proprio delle parole sensate, avevano sicuramente a che fare con la pappa o qualcosa del genere, ma quel giorno scattò qualcosa.
Vera scoprì che adorava parlare, cominciò a parlare continuamente e di tutto, sempre e comunque.
Forse più che la quantità delle parole, la cosa importante era la qualità di queste.
Parole così dolci che avrebbero potuto calmare un orso infuriato, ti metteva la pace dentro quella donna, ti parlava in un modo che nessuno sapeva fare. Non è che ti dicesse qualcosa di diverso da quello che potevano dire gli altri, ma come lo faceva lei…
Beh…
Avreste dovuto sentirla parlare, ecco.

Purtroppo però la vita è dura con tutti, anche un po’ ingiusta, ed una brutta febbre le tolse la parola.
Si, il mondo all’improvviso divenne silenzioso, nessuno più poté ascoltare la voce di Vera.
Lei faceva la maestra alle elementari, tutti in paese le volevano bene, ma i suoi bambini semplicemente la adoravano.
E cominciò per caso quella faccenda lì, fu un gesto disinteressato di uno dei suoi bambini, un piccolo gesto.
Lui andò a trovare la sua maestra.
Certo, lei non poteva più parlare, così lo cominciò a fare lui per entrambi.
Riempì il silenzio che era sceso in quella casa, ed improvvisamente tutto si sbloccò; come se l’aria diventasse di nuovo respirabile, e sul volto di Vera nacque di nuovo un piccolo e dolce sorriso.
Così tutti i suoi alunni cominciarono ad andare a trovarla, per riempire insieme il vuoto, per sconfiggere il silenzio, per far sorridere la donna più dolce del mondo.
E si sa, non si può sempre avere qualcosa di buono da dire, e spesso i bambini parlavano perché dovevano parlare, lo facevano senza sosta e fin quasi a stramazzare a terra senza fiato.
E c’era da morir dal ridere ad ascoltare quei discorsi, i bambini si divertivano come matti e Vera ascoltava ancora più divertita di loro, curiosa com’era con la gioia dipinta in volto ed il cuore pieno di storie incredibili.


Il resto, come si suol dire, è storia: nacque nel paese di Vera Van il modo di dire, quando qualcuno parla a casaccio gli si dirà sempre “Stai parlando a VanVera!”


22 giugno 2016

Un Gran Finale

Mi sveglio scuotendo la testa, sono seduto, sono nella sala di un cinema.

Le sedie sono di velluto rosso e tutte numerate, ho un sacchetto di pop-corn in grembo e sento il sapore del burro in bocca, lo schermo è bianco, lo spettacolo non è ancora iniziato e le luci sono accese.
La sala è completamente vuota, sono da solo.

Sono seduto mentre mastico pop-corn e mi guardo in giro chiedendomi come diavolo sia finito lì, ero convinto di essere andato a letto, ed in effetti quello che ho addosso è il mio pigiama, cosa diavolo sta succedendo?
“E’ una gran noia di film, ma non mi stanco mai di vederlo” esclama una voce alla mia destra.
Mi giro e noto un tipo disteso su una poltrona 7 o 8 posti più in là: sulla trentina, capelli rasati, occhiali da sole, stivali, cappotto e pantaloni in pelle, maglia nera con la scritta "Heden".
Ha le gambe distese in avanti con gli stivali poggiati sul sedile di fronte a se.
Abbassa gli occhiali sul naso, si gira a guardarmi e sorride mostrando i denti bianchissimi “Ti piacerà”.

Si spengono le luci e sullo schermo appaiono delle immagini.
E’ la casa dei miei genitori, sembra nuova di zecca, la finestra è aperta e da dentro si vede una culla.
“Marie, è bellissimo” esclama mio padre mentre abbraccia da dietro la schiena mia madre, entrambi fissano con dolcezza la culla.
“Voglio chiamarlo Richard, è un nome che mi è sempre piaciuto”

Quando mi rendo conto di quello che sto guardando per poco non mi strozzo col pop-corn.
“Ecco, io invece Richard proprio non lo sopporto, non capisco con che coraggio tua madre ti abbia fatto questo torto” stavolta però la voce veniva da dietro di me, mi giro ed il tizio è seduto qualche fila più indietro, non c’è più nessuno sulla destra.
“Si può sapere chi sei e cosa ci facciamo qui?” gli urlo contro.
Si mette un dito davanti alla labbra socchiuse ed indica davanti a lui.

Le immagini proiettate sullo schermo erano cambiate: io e mia madre eravamo al parco, avrò avuto al massimo 5 anni, stavamo mangiando un cono.
Mi vedo bambino mentre spingo con la lingua la mia pallina di gelato troppo forte e questa che esce fuori dal cono cadendo a terra.
Mia madre mi guarda, ma prima che possa cominciare a piangere mi dà una delle sue palline di gelato, la guardo con gli occhi un po’ umidi ma sorrido contento.

Immediatamente la scena sbiadisce, si vede la palestra della mia scuola elementare, ci sono io e Tim, ce le stiamo dando di santa ragione “Ridammi il mio giubbino!” gli urlo mentre ci teniamo per i capelli.
“Non hai mai saputo incassare” dice ridendo il tipo che ora mi siede di fianco, non capisco come possa spostarsi così velocemente senza che io me ne accorga.
Le immagini sullo schermo cominciano ad accelerare e a susseguirsi sempre più velocemente: il primo bacio con Denise, il diploma, la volta che ho dato un pugno a mio padre, il mio primo licenziamento, l’esame per entrare in polizia, la prima volta che ho ucciso un uomo, la nascita di mia figlia, la volta che ho rubato quei soldi della refurtiva, la firma del divorzio dall'avvocato, la volta che lancio il televisore fuori dalla finestra, l’incidente in moto, una delle notti di sesso con Jenny, io che spengo una sigaretta a terra, migliaia di fotogrammi che si susseguono velocissimi, io li vedo e li ricordo tutti.
Poi tutto si blocca.

Viene inquadrato il parabrezza della mia auto, sono seduto al volante, sto fissando la strada davanti a me, sono annoiato.
Il Richard dello schermo guarda di fronte a se, mi guarda, ed io guardo lui.

“L’avrai riconosciuta Rick, quella era la tua vita”
Mi si attorcigliano le budella.
“Si, lo so, ma noi lassù pensiamo che tu sia un uomo buono e che meriti quantomeno la possibilità di riflettere su quanto hai fatto finora”
“Si può sapere di cosa diavolo stai parlando?”
“Andiamo Rick, lo sai benissimo, è tutta la vita che ti sto appresso, lo so che hai già capito cosa sta succedendo, sei morto” e dicendo questo afferra una grossa manciata di pop-corn e se la ficca in bocca.

Resto pietrificato, sento il sangue nelle vene congelare all'istante e bloccarsi
All'improvviso il tipo al mio fianco scoppia a ridere con la bocca ancora mezza piena.
Butta giù il boccone ed esclama “Scusa amico ma non ho saputo resistere, stammi su, non sei morto!”
Lo guardo frastornato.
Il Richard sullo schermo continua a guidare, ogni tanto si gratta il mento, si sta accendendo una sigaretta.
“La vita, la tua vita come quella di tutti, è un viaggio. Tu per tutto il tempo non hai fatto altro che startene lì seduto a guidarla annoiato, osservandola mentre ti scorreva di fronte, non ti sei mai impegnato in nulla, hai sempre lasciato che le cose andassero come dovevano andare.
Prima ti ho detto che eri morto, beh, cosa cambierebbe dopotutto? Ed è proprio questo il nostro problema!”
Allunga la mano nell'aria e fa schioccare le dita, le immagini davanti a me cambiano, Richard in auto scompare e resta proiettata sullo schermo una gigantesca scritta bianca su fondo nero.

FINE

“Se domattina tu tirassi le cuoia, cosa diavolo potrei farne con te? Dimmi la verità, quello che hai visto ti ha soddisfatto?”
Guardo la scritta bianca, sono terrorizzato, ma riesco a capire quello che il tizio mi sta dicendo.
No, non sono soddisfatto, la mia vita fa schifo.
“Rick, comincia a vivere davvero, smettila di fare quello che ti viene detto ed agisci di tua iniziativa, svegliati, vivila la vita. Ne hai una sola, maledizione!”



Mi sveglio alzandomi di scatto seduto sul letto.
Guardo l’appartamento: gli occhi scattano da un punto all'altro, sto cercando in mezzo a quel caos il tizio del cinema.
Sono solo, era solo un sogno.
Sono sudato fradicio, fa freddo, mi alzo per andare a bere qualcosa mentre rifletto sull'assurdità di quel sogno, sono sconvolto.
Mi faccio una doccia calda, mi sento meglio.
Sto tornando a letto quando vedo sul tavolo un biglietto che prima non c'era.


Bianco, scrittura in corsivo, caratteri neri
“Biglietto del Cinema, vale 1 ingresso, spettacolo notturno per Un Gran Finale”




15 giugno 2016

Il Signor Hyde

Ricordo con infinita gioia un barlume, racchiuso tra i meandri della mia memoria, una piccola luce luminosa…una scintilla che dà vita ad un fuoco incandescente, che brucia tutto.
Quel giorno mi trovai improvvisamente di fronte questo spettacolo fiammeggiante, quel giorno cominciò tutto, quel giorno io nacqui.
Ma non fui mai completo.
Messo da parte come un pezzo di un puzzle a cui non appartenevo, così rimasi con gli occhi chiusi, segregato tra gli anfratti più oscuri dell’anima del mio alter ego.
Non ero altro che uno scarto, un rifiuto che Jekyll rigettò via. Tra me e lui fu sempre presente uno stretto legame: percepivo ogni cosa provasse lui ma come si può udire un eco che giunge da lontano, che mi costrinse a vagare nel labirinto in cui ero rinchiuso senza mai trovare uscita.


Jekyll era un vigliacco, spaventato da qualunque cosa lo minacciasse, si ritirava come un coniglio nella sua tana a leccarsi le ferite ogni qual volta falliva nel tentativo di farsi valere nel mondo.
In rare occasioni ebbi la possibilità di poterlo controllare, allungare la mano tra le sbarre di questa prigione, allungarla per un attimo così da costringere il corpo del mio alter ego a fare qualche gesto avventato.

Ma tutte le volte dovevo ritirare dolente la mano, come quella di un bambino sgridato, innumerevoli furono i miei tentativi di evadere da questo limbo, ed altrettanti i miei insuccessi. 
Mi chiedevo come potesse, uno smidollato debole ed impaurito vincermi: io rappresentavo il potere, io ero il male, IO!


Fu un giorno, di cui oramai ricordo e riassaporo ogni istante, che riuscii a fuggire dalla mia prigionia, ero sicuro che prima o poi Jekyll avrebbe aperto quella porta nella sua mente, quella che conduceva a me.
Quella pozione! Quella pozione mi liberò! Mai sapore fu così dolce! Era una sensazione di inebriante potere essere finalmente vivo, avere finalmente il controllo, poter osservare dai propri occhi le mani che avevo di fronte!
Era meraviglioso, anche se percepivo ancora dentro di me quella presenza vigliacca: il mio doppio esisteva ancora, anche se impercettibilmente.
Quante volte avevo fantasticato sui piaceri terreni che Jekyll mai mi concesse di raggiungere, e da quel momento in poi potevo finalmente esaudire ogni mio recondito e vile desiderio, quale pena mi faceva quel pusillanime dentro di me.
Si, ebbi la possibilità di poter dare sfogo alle mie pulsioni, ma fui rapidamente costretto ad abbandonare il controllo, in attesa di acquistare nuove energie.
Pozione dopo pozione, giorno dopo giorno, divenni sempre più forte… quanto dolce era il sapore di quell'intruglio e deliziosi gli spasmi della trasformazione.


Passarono i mesi, e feci un errore.
Non mi pento di aver ucciso quell'uomo, il piacere che provai e che provo ancora adesso ripensandoci è semplicemente indescrivibile.
Ma pagai caro il prezzo della mia follia: con gran dolore dovetti tornare nei panni di Jekyll una volta e per sempre, il rischio di essere arrestato era troppo alto.
Così, ancora chiuso nella mia prigione, vagavo senza meta.
Una tempesta di pensieri rabbiosi affollava la mia mente: ero sfuggito alla forca, ma quale morte non si preferisce alla prigionia eterna?
Più passava il tempo e più il desiderio di libertà cresceva, e la smania di potere alla fine mi accecò: col tempo la pozione mi aveva reso sempre più forte e, con la sola forza della volontà che mi stava divorando, riuscii a trasformarmi.
Fu la mia azione più avventata, non potevo più tornare indietro.


Ora vago nello studio di Jekyll tentando invano di ricreare la pozione per poter tornare indietro…Jekyll, pazzo maniaco.
Solo ora, capisco di essere l’artefice della mia stessa fine…



8 giugno 2016

Il Volo dell'Ambizione

I passi del mostro scuotevano le pareti del labirinto e rimbombavano cupi tra gli angoli di quella prigione, la bestia cercava senza sosta le sue prede spinto dalla rabbia della disperazione, la pesante marcia ed il grido disumano gettavano il terrore nel cuore di chi ascoltava.
“Padre, la bestia è vicina” sussurrò Icaro a suo padre, in preda all'angoscia.
Dedalo era alle spalle di suo figlio, intento a completare le ali di cera che aveva costruito sulla sua schiena e che sperava con tutto il cuore che potessero portare entrambi in salvo.
“Figliolo, puoi stare tranquillo, questo posto è una mia creazione, non ci raggiungerà molto presto”.
Sicuro delle proprie capacità, lo scaltro Dedalo calmò così suo figlio ed ebbe tutto il tempo di completare la grandiosa bardatura alata su cui oramai lavorava da giorni.



Furono ore terribili quelle che seguirono il loro ingresso nel labirinto. Inizialmente, infatti, Dedalo ebbe difficoltà a destreggiarsi in quella trappola che egli stesso aveva magistralmente progettato, occorsero ore perché la memoria lo aiutasse a disegnare una piantina di quel posto maledetto.
E il mostro era sempre lì in agguato, la sua presenza si stagliava prepotente in tutte le direzioni, sembrava che fosse ovunque e dietro ogni angolo pronto ad attaccarli da un momento all'altro.
Il tradimento di Minosse fu però ciò che sconvolse e lasciò Dedalo furioso e carico di risentimento, quel miserabile vigliacco li aveva condannati a una pena peggiore morte...ma egli aveva sottovalutato un fatto: l’ingegno di un padre non ha limiti quando questi è adoperato per salvare la vita del proprio figlio.


Icaro seguì con attenzione le istruzioni del padre e, dopo aver stretto con decisione le cinghie che tenevano insieme le ali ai loro corpi, cominciò a scuotere le braccia cercando di prendere quota.
Non fu semplice per entrambi prendere dimestichezza con quell'invenzione che non aveva eguali nella storia dell’umanità, un portento che gli stessi dei avrebbero invidiato dall'alto dell’Olimpo, qualcuno di loro si sarebbe probabilmente strozzato di ambrosia vedendo due gracili umani prendere il volo come degli uccelli.
Ed effettivamente è quello che successe: padre e figlio riuscirono a fuggire da quell'intrigo di gallerie...volando.
La guardia di vedetta neanche riuscì a dare l’allarme, lo stupore fu tale che il grido gli morì in gola incapace com'era a decidersi cosa avrebbe dovuto comunicare agli altri soldati, come sarebbe mai riuscito a spiegare una simile visione?


L’aria del giorno era fresca e correva veloce sulla pelle.
Dedalo galleggiava in testa alla coppia, incerto nei movimenti e prudente nelle manovre.
Icaro fissava la figura paterna dinanzi a lui con un’ammirazione che gli gonfiava il petto e gli donava un senso d’infinita pace e felicità.
Erano vivi, erano liberi, liberi come nessun uomo era mai stato prima.
L’emozione crebbe nel cuore di Icaro ed egli si rese conto solo in quel momento di stare davvero volando!
Volava, come un falco! Si librava libero nel cielo, non c’erano più vincoli o barriere o legami che lo tenessero legato anche solo al terreno, poteva andare ovunque egli volesse, ovunque.
“Padre, queste sono senza ombra di dubbio il tuo capolavoro!
Padre! Guardaci! Stiamo volando!”
Dedalo sorrideva, nonostante lo sforzo del volo metteva alla prova le sue membra vecchie e stanche, era felice di sentire suo figlio tanto pieno di gioia dopo gli ultimi giorni trascorsi nell'oblio.
Purtroppo, quando si girò verso di lui per osservarlo sorridente, era ormai troppo tardi.


Icaro sapeva che il sole trasportato da Apollo rappresentava un pericolo mortale, ma la fuga dal pericolo, l’ebrezza del volo, la sensazione di quel potere senza eguali che gli scorreva nelle vene, insieme all'arrogante pensiero che nulla al mondo potesse fermarlo, lo accecò a tal punto che dimenticò ogni avvertimento paterno.
In segno di sfida contro l’intero genere umano e le divinità che lo governavano, solo per sfamare il mostro di arroganza che gli era nato dentro, egli provò a salire più in alto nel cielo, sempre più in alto, dove nessuno era mai arrivato prima, troppo in alto per un piccolo e semplice essere umano.
Commise l’errore fatale di volare troppo vicino al sole, così il calore intaccò la solidità delle sue vestigia, ne disciolse la cera e strappò via dal giovane quel grandioso potere di cui egli si stava così infinitamente inebriando.


Icaro sentì di aver improvvisamente riacquistato peso, quello della giustizia divina che lo trascinava pesante verso il suolo.
Il calore del sole si faceva sempre più lontano, aumentò così il freddo ed il fischio del vento si fece sempre più forte nelle sue orecchie.
Ammirava innanzi a se lo sconfinato cielo azzurro che si allontanava ad ogni secondo che passava, osservava suo padre che con la forza della disperazione si lanciava inutilmente nella sua direzione sperando di poterlo sottrarre a quella caduta senza fine.
E nonostante tutto egli sorrideva felice.

Icaro precipitava verso il mare con la sicurezza di essere stato, anche solo per pochi attimi, un dio tra tutti gli uomini; egli aveva visto, sentito e provato per breve un istante ciò che nessun uomo avrebbe mai potuto neanche sognare.
Il suo ultimo pensiero andò al padre che lo inseguiva disperato “...perdonami padre se non ho seguito i tuoi consigli”


E lo schiocco sordo dell’acqua pose fine ai suoi giorni.



1 giugno 2016

Contro il Tempo

*Tic* *Tac*

Scartoffie, scartoffie ed ancora scartoffie, tutto il santo giorno nient'altro che scartoffie.
L'orologio segnava le 14:37, il ticchettio si perdeva nel caos aziendale, Jerry aveva gli occhi pesanti e non ne poteva più di starsene rinchiuso nel suo insulso box-ufficio.
Era addetto alla consulenza legale dell'azienda, non faceva altro che leggere scartoffie tutto il giorno, tutti i giorni, e ne era stufo.
Non c'era nulla che lo entusiasmasse, non si sentiva apprezzato, il lavoro che svolgeva era marginale e ripetitivo; quel compito semplicemente non gli piaceva, ma era incastrato lì non avendo altre opportunità, e nonostante tutto faceva controvoglia il suo dovere.
14:39
Quando sarebbe finita quella maledettissima giornata?

*Tic* *Tac*

La macchina sfrecciava nella notte.
Jane era pallida e debole, aveva addosso una camicetta bianca sporca di sangue, si premeva sulla ferita nel ventre uno straccio oramai completamente macchiato di rosso, era senza forze.
Mike stringeva i denti, teneva serrati i pugni sul volante, scartava le macchine con la forza della disperazione e lanciava occhiate frenetiche a sua moglie.
Erano da pochi minuti passare le 22:00, Mike doveva assolutamente evitare la superstrada per arrivare in ospedale il più velocemente possibile.
Era stata una lite da poco, scoppiata per una semplice battuta, come aveva potuto suo fratello conficcare un coltello nella pancia di Jane? Come diavolo era potuto succedere?
Dio mio. Non poteva essere...Jane resta sveglia! Jane sono qui, stringi la mia mano, ci sono io qui con te, non ti lascio, hai capito? Jane resta sveglia!
Jane!

*Tic* *Tac*

I raggi del sole attraversavano i rami degli alberi e scaldavano dolcemente la pelle.
Le dita di lui si stringevano calde intorno quelle di lei.
Erano stesi entrambi sull'erba frasca, e non c'era una singola preoccupazione al mondo che potesse sfiorarli.
Era tutto semplice, quasi banale, non c'era bisogno di dire nulla, o fare nulla, era perfetto.
Lei, con la testa poggiata sul suo petto, sentiva lo scorrere del tempo scandito dai battiti del suo cuore.
Quel tempo era intriso di una dolcezza ed una tranquillità che potevano esistere così puri solo nei 17 anni di entrambi.
C'era un sacco di tempo, avrebbero potuto stare lì qualche altra ora prima che qualcuno li cercasse, e lo avrebbero fatto.
Desideravano entrambi che quel momento non finisse mai, sarebbe stato bello poter fermare il tragitto del sole nel cielo, immobilizzare il vento, le foglie e tutto il mondo intorno a loro.
Dopotutto non c'era nulla di importante se non quel momento, bastava sentire le dita di lei che si chiudevano morbide su quelle di lui.

*Tic* *Tac*

Era una bellissima mattinata, il cielo era blu e non un alito di vento si alzava intorno allo stadio.
Christina si sentiva in forma, era pronta a vincere.
Le sei concorrenti erano posizionate dietro la linea di partenza, mancava poco.
Christina aveva sciolto e legato le stringhe delle scarpe almeno una decina di volte nell'ultima ora, quelle del piede sinistro ora stringevano un po troppo, ma non poteva più permettersi di toccarle.
Erano oramai tutte schierate e posizionate nei blocchi di partenza, pronte a partire.
Lo starter diede l'avvertimento.
La deflagrazione dello sparo arriva all'orecchio di Christina, il suo cervello esplode lanciando segnali e dicendo al corpo che è il momento di mettersi in moto, i muscoli si accendono e lei vola in avanti divorando il terreno.
100 metri sono pochi se corri come il vento, 100 metri sono un'infinità se ci pensi.
Basta uno scarto di pochi centesimi di secondo per diventare una leggenda, Christina lo sapeva.
Finché corri non c'è nulla di cui preoccuparsi, finché corri non fa male.
Correva con ogni briciolo di energia che aveva in corpo, correva più veloce di tutte, ma non lo faceva contro le sue avversarie, lei correva per battere quel maledetto cronometro.
Bastava una frazione di secondo per entrare nella storia.
Bastava così poco tempo...

*Tic*